Conoscenza, coraggio e umiltà: il messaggio di Mario Draghi (BCE)
Proponiamo una sintesi dell’intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ad Ottobre 2019, sul ruolo dei pubblici decisori (policy maker).
Molti studenti di questa e di altre università vestiranno nel corso della propria vita i panni del servitore pubblico: il futuro della società dipende dal sentire il bene pubblico da parte dei giovani migliori e dall’impegno che profondono nel raggiungerlo.
Vorrei oggi condividere con voi quelle che mi paiono caratteristiche frequenti nelle decisioni che consideriamo “buone”: la conoscenza, il coraggio, l’umiltà. Naturalmente la loro presenza non garantisce che si prenda sempre la decisione giusta. I policy maker spesso decidono in condizioni di incertezza in cui i risultati raramente sono conosciuti e valutabili con sicurezza. “Quasi tutti i problemi sono estremamente complessi […] la realtà è per sua natura complessa e ambigua”, notava qualche anno fa l’ex Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Robert Rubin.
La conoscenza
L’incertezza in cui operano i policy maker è dunque sostanziale. A maggior ragione le loro decisioni dovrebbero cercare di essere fondate sulla conoscenza degli esperti. Essa fornisce le basi: per comprendere nel profondo un problema, per essere in grado di prendere decisioni ponderate, il cui merito tecnico è tenuto distinto dal merito politico, e per saperle eventualmente correggere alla luce delle nuove evidenze. Il policy maker non può appoggiarsi alla realtà empirica nello stesso modo di uno scienziato ma può utilizzare lo stesso approccio nell’analisi dell’esperienza e nel processo di verifica delle ipotesi adottate con l’obiettivo di rispondere meglio alle richieste che i cittadini rivolgono ai governi.
Oggi viviamo però in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza per il policy making è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali; aumenta invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti, rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco.
In questo contesto è più facile per il policy maker rispecchiare semplicemente quelli che egli reputa essere gli umori della pubblica opinione, sminuendo il valore della conoscenza, assumendo prospettive di breve respiro e obbedendo più all’istinto che alla ragione. Ma solitamente ciò non serve l’interesse pubblico.
La lezione della storia è invece che le decisioni destinate ad avere un impatto duraturo e positivo sono basate su un lavoro di ricerca ben condotto, su fatti accuratamente accertati e sull’esperienza accumulata. Così è stato ad esempio per il sistema di Bretton Woods che ha stabilizzato l’economia globale dopo la Guerra, assistendone lo sviluppo per decenni e creando le istituzioni finanziarie senza le quali non potremmo oggi cercare di governare le conseguenze della globalizzazione. Quel sistema non sarebbe mai nato senza la incessante ricerca empirica condotta durante la guerra da un grande economista: Ragnar Nurske e senza l’esperienza e la visione di John Maynard Keynes.
La competenza fondata sulla conoscenza è essenziale per capire la complessità, nel nostro caso, delle dinamiche economiche e sociali, per quantificare i rischi associati a determinate situazioni e per valutare di conseguenza l’effettiva necessità di una certa azione; per stimare i trade off e gli effetti distributivi di un intervento, individuando coloro che ne beneficiano e coloro che ne vengono danneggiati.
Gli esperti devono continuamente mettere in discussione le loro ipotesi, riesaminare le evidenze, e saper ascoltare la voce di chi non è d’accordo. Per i policy maker i dissensi sono come uno specchio con cui osservare le proprie azioni e costituiscono uno strumento con cui spezzare la forza delle narrative dominanti. Ciò è essenziale per l’avanzamento della conoscenza e rappresenta il fondamento del progresso scientifico.
Nulla può sostituire per chi deve prendere decisioni il ruolo di un’analisi rigorosa, accompagnata dell’esperienza.
Il coraggio
La conoscenza non è però tutto. Una volta stabilito nella misura del possibile come stanno i fatti arriva il momento della decisione. Anche nel caso della politica economica, le azioni hanno sempre effetti collaterali e conseguenze indesiderate. Vi sono situazioni in cui anche le migliori analisi non danno quella certezza che rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente. È in questo momento che il policy maker deve far leva sul coraggio.
Anche il non agire rappresenta infatti una decisione. Quando l’inazione compromette il mandato affidato al policy maker dai legislatori, decidere di non agire significa fallire. In molti casi i policy maker devono agire consapevoli che le conseguenze delle loro decisioni sono incerte , ma convinti che l’inazione porterebbe a conseguenze peggiori e al tradimento del loro mandato.
Spesso, durante la crisi dell’ultimo decennio la necessità di prendere decisioni anche cruciali si è scontrata con il timore che non tutte le possibili complicazioni fossero state considerate, con l’opposizione da parte di interessi costituiti, con i dubbi sulla legittimità ad agire.
L’inazione trova la sua radice nella convinzione che l’esistente non abbia bisogno di modifiche, anche quando tutta l’evidenza e l’analisi indicano la necessità di agire.
Il coraggio necessario per agire [nell’implementare le misure di politica monetaria non convenzionali, mai adottate prima ndr] venne dalla convinzione che i rischi incombenti sarebbero stati assai maggiori se non avessimo fatto nulla. Saremmo in questo caso semplicemente venuti meno al nostro mandato e avremmo potenzialmente messo a rischio l’integrità della moneta che avevamo il compito di preservare. Ciò rendeva inevitabile la decisione presa; era l’unica possibile per un policy maker responsabile.
L’umiltà
Essa discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore pubblico non sono illimitati ma derivano dal mandato conferito che guida le sue decisioni e pone limiti alla sua azione. I funzionari pubblici, le banche centrali in particolare, ricevono un mandato politico, nel senso che esso è il frutto di un processo politico. I membri del Comitato esecutivo della BCE sono nominati dal Consiglio degli Stati – il Consiglio europeo – e sugli stessi esprimono un parere i rappresentanti dei cittadini: il Parlamento europeo. Sono vincolati da un obiettivo, la stabilità dei prezzi, che in Europa ha valore costituzionale – è iscritto nel Trattato. Altrove è definito dalla legge, ma scaturisce sempre da un processo democratico. Essi devono dunque rispondere ai parlamenti della loro azione.
Conclusioni
Nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità.
La creazione dell’Unione europea, l’introduzione dell’euro e l’attività della BCE hanno incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche. Hanno dimostrato nondimeno il loro valore; oggi sono coloro che dubitavano a essere messi in discussione.
Ciò riflette lo sviluppo normale delle unioni monetarie, che è lento, non lineare, accidentato. Gli Stati Uniti, ad esempio, non ebbero una banca centrale per più di 130 anni dopo la loro fondazione; il bilancio federale ha assunto un vero ruolo solo negli anni Trenta dello scorso secolo. Oggi pochi penserebbero di ritornare indietro.
È essenziale per lo sviluppo di un’unione monetaria che i suoi cittadini credano nell’unione e la assumano comunque, anche criticamente, come riferimento piuttosto che considerare tutti i problemi guardando all’orizzonte del loro punto di vista particolare. Mi sembra che le ultime elezioni per il Parlamento europeo, forse le prime incentrate su temi prevalentemente europei, lo abbiano confermato. Anche chi mirava a rallentare l’integrazione europea non ha contestato la legittimità delle istituzioni dell’Unione, pur criticandole anche duramente. I parlamentari eletti sono risultati in maggioranza a favore dell’Europa.
Per questa ragione sono ottimista sul futuro dell’Europa. Penso che col tempo essere parte dell’UE e dell’Unione monetaria sia diventato normale per gran parte dei cittadini. L’euro è più popolare che mai; il sostegno all’UE tocca i valori più alti registrati dall’inizio della crisi. Nei dibattiti sul futuro dell’Europa si discute sempre meno se la sua esistenza abbia senso e assai di più sulla via migliore per avanzare. Su queste basi la nostra Unione può durare e prosperare.